Incontro con il pensiero

27 settembre 2008
Villa Pace – Via Consolare Pompea “Incontro con il pensiero”
Giornata di studio dedicata a Francesco Siracusano

ore 9,00  

Introduzione di Diletta La Torre 

Dò il benvenuto a tutti voi e vi ringrazio della vostra partecipazione; l’iniziativa di oggi nasce dalla convergenza di due  associazioni psicoanalitiche, il Laboratorio psicoanalitico “Vicolo Cicala”di Messina e l’Istituto Italiano di Psicoanalisi di gruppo ( IIPG). Entrambe hanno riconosciuto in Franz  Siracusano il proprio Presidente onorario, oggi mi onoro di rappresentarle entrambe.

Incontro con il pensiero: qualche parola su questo titolo, che abbiamo scelto per sintetizzare l’invito che l’insegnamento di Siracusano come formatore e psicoanalista ci ha rivolto sempre. Il primo livello di significato è anche il più ovvio: oggi ci impegniamo, con questa giornata dedicata a Siracusano, di incontrarci con il suo pensiero. Le relazioni di oggi riprendono ed elaborano i temi che egli ha trattato sia negli scritti, sia nella comunicazione orale, secondo la tradizione degli psicoanalisti, in particolare siciliani. Anche le citazioni presentate sullo schermo rimandano al desiderio di partire dalle sua parole per impadronirci appieno del suo pensiero: non un furto ma il senso di un’eredità da consolidare e da trasmettere. Perciò leggeremo dei brani tratti dai suoi scritti. Il primo è parte di un lavoro pubblicato nel 1979, il titolo, Il paziente come oggetto assente, ci introduce alla dimensione positiva e creativa dell’assenza, ovvero come l’assenza o il vuoto possano essere significanti di un’offerta vitale.

Ma che significa, lui direbbe, incontrare il pensiero?

Io risponderei testimoniando l’essenza del suo insegnamento come lo stimolo forte e costante ad assumere un atteggiamento aperto all’ignoto, libero e insieme critico e disciplinato. Egli aveva l’abitudine di iniziare qualsiasi argomento con la definizione e con l’etimologia; ci dimostrava che il senso che emergeva attraverso quella definizione non era identico a quello che conoscevamo già, facendoci assaporare la nostra ignoranza. Infatti la definizione che egli proponeva introduceva a nuovi significati e ci portava a scoprire idee nuove su ogni tema. Cito da “L’attesa reciproca”“la definizione e poi la interpretazione insegnano a parlare. Parlare come linguaggio che dice le cose e i significati”(…) con questo addestramento il paziente potrà produrre spontaneamente espressioni sempre più chiare di desiderio. Saprà cosa desidera”. ( Siracusano F.,  1988).

Consultando il Vocabolario della lingua italiana[1] scopro che

la parola incontro contiene un’ambiguità che è della stessa condizione umana, della soggettività e della relazione, anzi della nostra  soggettività in relazione. Come ricorda Heidegger “l’esserci”(dasein) è irriducibilmente “esserci-con” (mitsein). Cito: “L’essere con e ad altri implica il tenersi in un rapporto di essere tra un esserci e un altro esserci. Questo tenersi in rapporto è però già costitutivo di quell’esserci che è sempre il proprio, il quale avendo di se stesso una comprensione d’essere si tiene in rapporto a un esserci. Questo tenersi in rapporto ad altri diventa allora la proiezione del proprio-a se stesso“in un altro”. L’altro è un doppione di sé”. (Hiedegger, 1927).

Incontro, suggestivo esempio di un sostantivo che nasce da una preposizione e da un avverbio, in cui “in” preposizione di stato in luogo dà luogo all’azione, poi sostantivata: un esserci, un trovarsi che viene caratterizzato dall’unione  con l’avverbio “contra”, dunque un trovarsi di fronte a qualcuno o a qualche cosa. Cioè: non possiamo non esserci, né possiamo esser-ci “soli” senza avere nessuno-nulla di fronte; la qualità di questo evento di relazione ineliminabile che ci sostanzia può invece variare da un estremo di gradevolezza e di intensità passionale ( l’incontro amoroso) a un altro estremo di ostilità ( incontro armato) percorrendo tutto lo spettro delle pulsioni, dei sentimenti  e delle azioni.  Apprendiamo inoltre che l’incontro non è primariamente un evento intenzionale, bensì casuale: è questo il primo significato riportato dal vocabolario (Incontro 1a. Il fatto di incontrare, di incontrarsi casualmente, di due o più persone, ibidem). Ciò significa che non possiamo evitare l’incontro con ciò che è inatteso, con ciò che si sottrae sia all’intenzionalità sia al desiderio o alla previsione. Ce lo insegnano i nostri pazienti fobici che arrivano a chiudersi in casa per evitare ogni possibile incontro, senza per questo sentirsi  protetti,  perché oltre a chiudersi non devono fare entrare niente e nessuno e scoprono che non possono collegarsi a internet perché la rete è piena di incontri non previsti e non voluti. E ancora non basta, perché l’incontro con se stessi, con questa fondante alterità dentro di noi, non è eliminabile neppure ricorrendo all’uscita da sé della follia.

D’altra parte la chiamata non viene certo da un altro, che sia con me nel mondo. La chiamata viene da me e, tuttavia, passando sopra di me.”(ibidem) La causalità ineliminabile dell’evento-incontro trasforma lo stesso in qualche cosa di inevitabile, al di là del nostro potere, e ne fa una categoria dello spirito in cui l’intenzionalità del desiderio si confronta con il declino dell’onnipotenza.

Passiamo all’altra sfumatura di significato, dopo l’incontro casuale abbiamo l’incontro intenzionale di persone che si trovino insieme deliberatamente,  per “festa o onore”. Riconosco qui l’incontro di oggi: un incontro voluto per onorare il comune maestro. Ma per fargli davvero onore l’incontro si preannuncia anche venato di casualità, di non intenzionalità; obbedendo in certo senso al nucleo profondo della parola ritengo sia opportuno lasciare uno spazio di imprevedibilità, di apertura all’ignoto per non fissare troppo i pensieri e per consentire invece che si sviluppino traiettorie mentali convergenti o divergenti in un’architettura potenziale determinata da tante menti pensanti.  Immagino sia già operante un campo gruppale attivato da pensieri, o meglio da sentimenti-pensieri “per”e verso  Siracusano che nascono “dal” suo pensiero e dal pensiero “di” lui.

Passo ora ad interrogare il vocabolario sul secondo termine, pensiero. Trovo un’ambiguità anche nella parola “pensiero”, a partire dall’etimologia latina (dal latino pensare, intensivo di pendere) che lega pensare con pendere: “pesare”. Seguiamo  pensiero attraverso le varie accezioni: dal linguaggio comune al significato filosofico, psicologico, cognitivo esso si dispiega a ricoprire tutta l’area della soggettività in relazione, così come abbiamo visto-singolare coincidenza?-per la parola incontro. Tra i vari significati indicati dal dizionario spaziamo dall’attività cosciente (“la attività psichica mediante la quale l’uomo acquista coscienza di sé e della realtà che egli considera esterna a se stesso”, ibidem) al fantasticare, dal ricordare all’immaginare, dal prevedere al provvedere, dall’affetto alla cura, alla preoccupazione all’angoscia, fino all’opinione e al giudizio. Il pensiero ha a che fare con tutto ciò che è umano e più propriamente tale, in primis la relazione e la condivisione. Esso si specifica come attività mentale strettamente personale, propria ma rivolta verso qualcuno o qualche cosa.  Pensieri affettivi che contengono la preoccupazione per chi amiamo o l’ansia e l’angoscia per ciò che non siamo pronti ad affrontare, ciò che pesa su di noi, e ci ricaccia nella hiflosgeist originaria della fase della vita che precede il pensiero, laddove il pensiero non era “nostro” ma di qualcun altro; ma era, ed era “per” noi. Altrimenti, come Freud e Bion ci hanno insegnato, se non ci sono stati pensiero e cura per chi non può -ancora- pensare, lo stesso pensiero non può nascere, non viene costruito neppure l’apparato per pensare.

Solo alla fine della carrellata di significati che il dizionario propone, il pensiero si fa “opinione, giudizio”, e allora il “pesare” ci viene incontro con l’immagine della bilancia, simbolo della Giustizia, che pesa e confronta il bene e il male e solo dopo decide giudicando.

Tutta la vita mentale sarebbe nulla senza il pensiero, infatti l’espressione “cogito ergo sum”di Cartesio ha travalicato i confini della filosofia e si è imposta come uno slogan incisivo come un graffito.

“Penso quindi sono” indica lo stretto collegamento tra essenza (più che identità) e pensiero, e non si intenda il pensiero filosofico come esercizio solipsistico, anzi a partire dai Dialoghi di Platone il pensiero del Filosofo ha urgenza di comunicare e di “pubblicare” la propria verità.

Una verità intesa come tensione, non come possesso.

Il pensiero, inteso in senso ermeneutica, si apre al senso, cerca la verità  ma rimane “in transito”, non raggiunge cioè un significato assoluto: è “un additare”, ovvero un rinvio, indica qualcosa ma non svela la verità.

Riprendendo una citazione di Siracusano in “L’attesa reciproca”, ( Siracusano 1998) constatiamo che Heidegger esprime un concetto assimilabile a un principio di tecnica psicoanalitica : “Una cosa sola ci resta da fare: attendere che quel che è da pensare si rivolga a noi”; in moto sul cammino di ciò che è da pensare. ( Heidegger, 1954).

 


[1]  Istituto della Enciclopedia italiana fondata da G.Treccani, Roma, 1987

Conclusione dei lavori

A cura di

 Diletta La Torre

 

Oggi il nostro  filo di Arianna è un filo di pensiero, non una strada larga, una via luminosa e sgombra, ma un filo esile e fragile, a rischio di rottura e di ingarbugliamenti. (Sono questi gli strumenti analitici, esili, fragili, e perciò, quando va bene, autenticamente salvifici come il mito stesso ci insegna).

Il primo rischio di rottura è quello di rompere il legame, il legame tra significante e significato, certo ma anche il legame con la conoscenza, l’amore e l’odio. Il legame tra modo di essere simmetrico e modo di essere asimmetrico, perché la preponderanza dell’uno rispetto all’altro può provocare dei danni. E si potrebbe continuare a lungo pensando al legame analitico, al legame tra individuo e gruppo. Il filo ci rimanda al filo associativo, ai nodi dei significanti, laddove l’analista sente di poter intervenire con la parola analitica o con la sua reverie per dipanare e per ritessere insieme al paziente trame perdute o labirinticamente intrappolate.

Il filo delle relazioni di oggi si annoda a costruire una rete in cui pescare nuovi pensieri. Pensieri che sono germinati dai temi più cari al Professore oggi ripresi, pensieri conseguenti e seguenti alle sue idee, secondo quanto lui stesso ci ha detto quando ha definito il pensiero meta-noico, contrapposto al pensiero paranoico, come un pensiero aperto molteplice multidimensionale. Un pensiero i cui i termini opposti o complementari trovano un nuovo, impensabile, accoppiamento, (Siracusano, 2000 ). Ad esempio Memoria e oblio, pensati insieme ma non per come eravamo da sempre abituati; l’oblio non come il lavoro della rimozione  (dimenticare l’angoscia, il dolore, il dispiacere, secondo la classica formulazione freudiana “come motivo dell’oblio ogni volta un dispiacere, dover ricordare cose atte a destare sensazioni penose”, non solo almeno. L’oblio come una forma di memoria per serbare intatto, incontaminato il piacere dell’esperienza, come:

bisogno di conservare la fonte della libido in ciò che è collocato nel cosiddetto oblio”. (Siracusano,1982). Cito un passo molto significativo: “l’oblio consente la ripresa di un’emozione che si può estendere da tutta una classe ad una sottoclasse e così via”.; l’amnesia infantile non è affatto dimenticare ma conservare in modo indelebile per ogni futuro modo di essere….l’oblio non si contrappone alla memoria, è un aspetto della memoria e perciò non annulla né distrugge il ricordo. L’oblio consente una “conservazione inesauribile”.( ibidem).

In questo lavoro è citato Tiresia, personaggio che ha affascinato Siracusano, egli lo nominava spesso, e gli ha dedicato un bellissimo seminario. Anche Sapienza evoca Tiresia e dice che Siracusano, come Tiresia, ha visto cose che non doveva vedere: “nelle cose più ovvie trovava l’eccezionale, nel banale l’impensabile, l’intera seduta era in una parola”. Sapienza ci ha detto con un linguaggio espressivo appassionato potente e unico (cioè proprio suo) che si è incontrato con il pensiero di Siracusano e che questo incontro ha prodotto in lui una trasformazione; lo ringrazio per questo e anche perché mi dà la possibilità di darvi un esempio di quello che intendo per incontro con il pensiero senza usare parole. Egli ci presenta Siracusano come un visionario, cioè con la poesia della visione, dell’udito del tatto, eccetera, con la sua psicoanalisi visionaria, se volete, una psicoanalisi senza codici rigidi, meglio con dei codici così estesi, poliedrici, sempre dialoganti tra loro “che si compongono e si scompongono” producendo quell’effetto di stupenda meraviglia che lui sapeva cogliere dovunque, e che trasmetteva, la meraviglia della conoscenza “vera e reale”.

Siracusano F. (1982) Il messaggio nascosto nell’oblio, RIP; 1982 n 3

Siracusano F. Paranoia-Metanoia, I percorsi del pensiero paranoide, Koinòs,2000,n2 2.

Siracusano F Un tentativo di interpretare Tiresia,

Sapienza T La bilogica del rito.

 

 

I pensieri e i pensatori

 

La voce sarebbe una potenza estranea che penetra nell’esserci

 

Heidegger, 1927

 

 

Spesso Siracusano riproponeva l’invito di Bion ad accogliere i pensieri selvaggi, quei pensieri senza pensatore che sono in attesa di qualche forma di appropriazione e di ospitalità. Sono pensieri che per poter essere espressi, anche solo a noi stessi, devono essere addomesticati, resi coerenti con la mentalità dell’ospite e del gruppo che li accoglie. Preferisco riportare le parole di Bion perché esse, malgrado siano ben note, continuano ada avere un effetto sorprendente sul lettore. Dai Seminari italiani: “ci sono (..) molti pensieri senza pensatore e (…)  sono, così nell’aria da qualche parte. Ipotizzo che essi stiano cercando un pensatore. Spero che qualcuno si possa sentire preparato ad alloggiare questi pensieri o nella propria mente o nella propria personalità. Mi rendo conto che questa è una grossa richiesta perché questi pensieri senza pensatore, pensieri vagabondi, sono anche potenzialmente pensieri selvaggi. E a nessuno piace dare casa a un pensiero selvaggio (…) A noi tutti piace che i nostri pensieri siano addomesticati, ci piace che siano pensieri civilizzati( …) pensieri razionali.” (Bion ,1983).

Prima di Bion è stato Levy Strauss a parlare di “pensieri selvaggi”. Claude Levy Strauss ha scritto Il pensiero selvaggio a metà degli anni cinquanta.  Così si esprime a proposito:

questo “pensiero selvaggio”non è per noi il pensiero dei selvaggi, né quello di un’umanità primitiva o arcaica, bensì il pensiero allo stato selvaggio, distinto dal pensiero educato o coltivato proprio in vista di un rendimento. Oggi siamo in grado di capire come entrambi possano coesistere e compenetrarsi, così come possano coesistere e incrociarsi le specie naturali, tanto quelle rimaste allo stato selvatico tanto quelle che sono state trasformate dall’agricoltura e dall’addomesticamento, benché -per il fatto stesso dello sviluppo e delle condizioni generali che questo richiede- l’esistenza delle seconde minacci di far estinguere le prime. Ma esistono ancora  alcune zone in cui il pensiero selvaggio si trova, come le specie selvatiche, relativamente protetto: è il caso dell’arte, cui la nostra civiltà accorda lo statuto di parco nazionale con tutti i vantaggi e gli inconvenienti che comporta una formula tanto artificiale; e soprattutto è il caso di tanti settori della vita sociale ancora incolti dove, per indifferenza o per impotenza, e senza che il più delle volte sappiamo il perché, il pensiero selvaggio continua a prosperare” ( Levy Strauss, 1962).

Mi sembra interessante notare le analogie tra Levy Strauss e Bion.

Entrambi alludono al rischio dell’estinzione a causa di un eccesso di “addomesticamento”; entrambi indicano nell’arte una zona protetta in cui il pensiero selvaggio può liberamente esercitarsi. Di Levy Strauss è la metafora di “parco naturale”: l’arte è il territorio in cui il pensiero selvaggio si esprime ed è protetto. Bion dice qualcosa di analogo ma con una sfumatura di maggiore complessità: il passaggio da pensiero selvaggio a forma espressiva artistica non è automatico, né assicurato in qualche modo dalla qualità selvaggia del pensiero, bensì è l’esito di una trasformazione che richiede un lavoro psichico. Leggiamo:”( la trasformazione)…dipende dal fatto di avere il coraggio di avere un pensiero selvaggio sia da svegli che dormendo. E dipende dall’essere in grado di svegliarsi e di essere pienamente consci, di avere tutte le proprie capacità a disposizione ed essere quindi capaci di trasformare il pensiero selvaggio o l’immagine selvaggia in modo che diventi relativamente rispettabile, così che si possa dir: E’un campo di papaveri”. (Bion, 1983).

Bion insiste molto sul rischio di pensare, e non si tratta solo di un rischio relativo alla qualità “selvaggia” del pensiero. Egli ci ricorda che è difficile fare l’esperienza di trovarsi con qualcuno che dice realmente quello che pensa, “il paziente non è abituato a sentire qualcuno che dice proprio quello che intende dire”. (ibidem).  Tante volte egli adopera espressioni quali: essere responsabili dei propri pensieri, avere il coraggio di essi, provare la paura dell’accoglienza che i nostri pensieri riceveranno. Richiede coraggio osare di rendere pubblica la propria esperienza e comunicarla a qualcuno altro da sé.  Si rischia di essere considerati dei sobillatori, di essere esclusi, isolati, addirittura di essere distrutti. Ma questo è il destino “dell’oggetto buono” , che contiene l’idea che esiste qualcosa che vale abbastanza da essere distrutta. Riguardo al pericolo di estinzione dei pensieri selvaggi Bion riprende il suo invito a lasciare memoria e desiderio, a dimenticare attivamente le nozioni e le teorie apprese; “bisogna scoprire qualche processo attraverso cui dimenticare quello che si è imparato in modo da essere sensibili ai pensieri o ai sentimenti fondamentali che sono forse ancora sopravvissuti”.(ibidem)

Bion mette in guardia dal considerare il pensiero come un’attività conosciuta. E dal “dare per scontato che naturalmente possiamo pensare”. Infatti avere un apparato mentale e un luogo anatomico e fisiologico deputato al pensiero non ci dice come pensiamo, mentre questo problema è alla base della “sua” psicoanalisi e delle sue teorie. Da Bion in poi la psicoanalisi ha istituito nella “pensabilità” un obiettivo e insieme uno strumento di cura  specificatamente psicoanalitici.

Seguendo questa traccia bioniana, vivificata dagli incontri di gruppo con Franz  Siracusano e attualizzata dall’incontro di oggi,  mi sono trovata  a interrogarmi sulla minaccia di estinzione dei  pensieri e dei pensatori. La proposta di Bion che esistano pensieri senza pensatore, pensieri vagabondi, randagi che sono in attesa di un’appropriazione è ricca e ci ha stimolato inducendo elaborazioni ardite e feconde. Vorrei riprendere con voi una riflessione sul tema del nostro convegno secondo un altro vertice, che pure origina dal primo.

L’incontro con il pensiero introduce alla dimensione relazionale che il pensiero sano porta intrinsecamente con sé. Un pensiero relazionale, quindi, ma non basta. Infatti l’incontro con il pensiero non vuol dire automaticamente ed esclusivamente l’accesso alla mente dell’altro, questo sì, certo, ma dopo. Questo “dopo” specifica l’essenza della lezione psicoanalitica, che nasce veramente dopo che Freud ha constatato l’insufficienza dell’autoanalisi e di conseguenza ha inventato la esperienza psicoanalitica come la conosciamo e pratichiamo oggi, come lavoro di due menti, paziente e analista, che si incontrano, appunto nel transfert e nella relazione. Eppure anche noi analisti a volte dimentichiamo l’importanza della dimensione intrapsichica come dimensione intrinsecamente aliena. Estranei a noi stessi, ignari di noi stessi e sconosciuti.  Non solo l’inconscio ci è ignoto ed estraneo, ma addirittura il nostro pensiero.  Non lo conosciamo: per conoscerlo, dobbiamo incontrarlo. Incontrare i pensieri è veramente pensare, altrimenti tutto si riduce ad un rimestare concetti già logori, saturati dall’abitudine e dal conformismo. Se cominciassimo a essere senza memoria e senza desiderio nei confronti di noi stessi, capiremmo meglio l’invito di Bion ad applicare questa regola in seduta.

Bion ha parlato spesso di pensieri senza pensatore, i pensieri senza pensatore sono i pensieri che non hanno ancora un proprietario, che non ci appartengono, che vagano, possiamo dire, nella mente o nella stanza, senza essere stati ancora assimilati, resi nostri, inseriti in codici precisi o messi in linea coerente con gli altri nostri pensieri o credenze o giudizi o teorie, con tutto ciò che appare connaturato alla nostra identità “pensante”(“cogito ergo sum” significa anche che noi siamo ciò che pensiamo). Siamo disposti ad essere ciò che ancora non pensiamo o non sappiamo di poter pensare? Siamo disposti a sospendere il giudizio e stare in attesa di un’epifania, di un divenire-apparire di un pensiero albeggiante o balbettante, un pensiero non nato ma che potrebbe nascere se noi stessi non ostacolassimo questo processo con precoci cesure. Pensieri onirici? Anche, “sognare e pensare sono della stessa sostanza” ma la proposta vuol essere più radicale.

Il pensiero non è la secrezione della coscienza, è un’operazione rischiosa, un’avventura, nel senso etimologico (verso il futuro, ciò che verrà), se il pensiero non si apre al futuro, cioè all’ignoto, al possibile e anche alla possibilità dell’impossibile-fino ad ora- non ci sarà alcun progresso, alcuna innovazione, o originalità.

Ma se ci sono pensieri senza pensatori propongo che si possa considerare anche l’inverso: che esistano pensatori senza pensieri, pensatori, cioè, che non hanno mai incontrato i propri pensieri, che non li hanno avuti di fronte a sé, che non hanno dialogato con essi, che non li conoscono affatto.

Mi sembra un rischio sempre in agguato e tristemente presente. I pensatori senza pensieri sono coloro che hanno troppo addomesticato i pensieri e si sono uniformati a una mentalità collettiva  tanto da non accorgersi di avere perso la capacità di interrogarsi sulla reale aderenza di tali pensieri alla propria identità. Si tratta del “si” dell’anonimato, del conformismo, di cui parla ancora Heidegger  “il si  che di preciso non è nessuno e che, benché non come somma, tutti sono, prescrive il modo d’essere della quotidianità”(Heidegger ,1927).

Direi che i pensatori senza pensieri non si incontrano con i pensieri, ne fanno degli abiti con cui ricoprono la propria nudità. La parola creatività è inflazionata, la creatività nasce dall’attitudine a uno stato di apertura e di meraviglia a tutto ciò che si dischiude e appare dentro di noi, di fronte a noi. Che cosa dice questo altro Io di fronte a me? Che cosa potrebbe comunicarmi se potesse? Se avesse l’ardire di parlare a me come se fosse un altro, un ospite,  uno sconosciuto, un estraneo, un barbaro, un nemico? (l’escalation etimologica dei vari aspetti dell’alterità mi serve per far capire la difficoltà  ad assumere questa posizione).

Eppure se incontrassimo un pensiero nostro, a cui siamo affezionati, con cui ci identifichiamo totalmente e lo trattassimo come un nemico, che cosa succederebbe? Se smettessimo di essere empatici con noi stessi e ci sforzassimo di esserci antipatici, di renderci antipatici i nostri pensieri preferiti?

Ogni tanto si potrebbe fare una esercitazione mentale: aprire le scatole dei nostri pensieri e fare una cernita, buttare via quelli che non ci appartengono e con cui non abbiamo legami. O ancora dovremmo provare a disidentificarci dai nostri pensieri più familiari e chiederci se veramente ci rappresentano, se riflettono ciò che siamo hic et nunc, se siamo cambiati rispetto ad essi e non lo sappiamo. O, anche, se questi pensieri così familiari siano stati mai veramente nostri o se invece ci sono stati appiccicati a nostra insaputa. Insomma piuttosto che addomesticare i pensieri selvatici, provare a far imbizzarrire i pensieri domestici. Considerarli per un momento come pensieri nemici, ostili a noi stessi, considerare la possibilità che possano intossicarci invece di alimentare la nostra mente. Un’operazione “barbara” in senso positivo; un’operazione di estraneazione da cui partire per un’appropriazione veramente consapevole.

 

                                                   Bibliografia

Bion W. R.  (1983) “Seminari italiani”, Borla, Roma, 1985

Duro (1987) Vocabolario della lingua italiana, Istituto della Enciclopedia italiana fondata da G.Treccani, Roma.

Heidegger  ( 1927) “Essere e Tempo”,

Heidegger  (1954) “Che cosa significa pensare?” in Saggi e Discorsi, Mursia, Milano, 1976.

Claude Levy Strass (1962) Il pensiero selvaggio, Il Saggiatore, Milano, 1969.

Siracusano F. a (1982) Il messaggio nascosto nell’oblio, RIP; 1982 n 3

Siracusano F.b Paranoia-Metanoia, I percorsi del pensiero paranoide, Koinòs,2000,n2 2.

Sapienza T La bilogica del rito.

Siracusano F.c (1979) Il paziente come oggetto assente, RIP 1979;

Siracusano F d (1988).L’attesa reciproca, Gruppo e funzione analitica: 1988 n 1

 


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