Professore, lei c’è..

Presentato al convegno “INCONTRO CON IL PENSIERO”
Giornata di studio dedicata a Francesco Siracusano
Messina, 27 Settembre 2008- Villa Pace

“Professore lei c’è?”

Con queste parole Siracusano iniziò il suo intervento il giorno dell’apertura del Laboratorio nel gennaio del 2003. Si riferiva ad una supervisione di gruppo da lui condotta in cui un partecipante, cieco, entrando nella stanza in cui si svolgeva la supervisione, chiese: “Professore lei c’è?”….Come se non avesse sentito alcun segno della mia presenza” – aggiunse il Professore.
La domanda del cieco, metaforicamente ripresa da Siracusano, è la richiesta di un bisogno “Professore lei è qui per me? È qui per conoscere e vivere, sia pure per un’ ora, nel mio mondo, ed è disposto ad accettarmi e rendermi presente nel suo mondo?”
In questo modo Siracusano ci poneva due domande che continuano a farci riflettere nel nostro quotidiano lavoro psicoanalitico: “…noi analisti, ci siamo veramente? E vogliamo veramente essere presenti in questo mondo che mostra sempre più di avere bisogno di un contenimento appropriato, in cui gli individui vengano letteralmente tenuti e guidati?” .
Non è un paradosso ammettere che, oggi, il Professore è in noi e tra noi, “più vivo” che mai (nell’accezione winnicottiana), né questo deve risuonare retorico. Non sono solo i suoi insegnamenti ma, di più, è un’invisibile connessione con una parte di noi capace di “sognare”, come direbbe Bion, che avere a che fare con lui ha reso possibile, anche se non saremmo capaci di dire in che modo e quando questo sia accaduto.
Di fatto egli ci ha trasmesso un qualcosa, difficile da dirsi, che caratterizza ora la nostra visione psicoanalitica.
Durante le riunioni del martedì, al Laboratorio, nei mesi successivi alla sua morte e anche in occasione della preparazione di questa giornata, abbiamo pensato a lui senza essere spinti dal pensare a lui.

In un primo momento, dopo avere raccolto i suoi articoli, abbiamo cominciato a leggerli insieme e succedeva che, poi, ognuno, partendo dal pensiero del Professore, da una sua tesi, spaziasse di proprio, magari raccontando brani di casi della clinica quotidiana o ricordi personali inerenti alla traccia che stavamo seguendo leggendo il suo brano; allora ci siamo soffermati per capire questo strano movimento che poteva sembrare un tergiversare, un andare fuori tema, un distrarsi dal progetto concordato, un vagare con la mente partendo da un input e realizzare, insieme (in quest’insieme era incluso lui anche in assenza di lui) trame impreviste create dal lavoro comune della mente gruppale . Così abbiamo capito che cos’è che lui ci ha lasciato, quale eredità.
La capacità di produrre con la mente pensieri che vadano in ogni direzione, che non si fermino, la capacità di vedere “il verso e il converso” di ogni cosa e questo, crediamo, costituisca la sua scuola. Una scuola di pensiero dove il Maestro insegna senza fare lezioni, ma piuttosto presentando uno stile paradigmatico dove il garbo, la curiosità e l’inventiva costituiscono la cornice in cui inserire la teoria di Bion o di Matte Blanco, di Freud e di Pontalis e in questo modo “cunzare” per usare il suo linguaggio, l’apparato per pensare pensieri più diversi.
Lui incitava, (e questo lo abbiamo appreso solo ora) senza costrizione né violenza, a spingere la mente verso il movimento, l’associatività, il pensiero libero. Tutto ciò avveniva come in sordina, niente di roboante, nessun proclama proveniva dalle sue parole. Ed è proprio questa sua capacità, pensiamo, che ha prodotto, quasi invisibilmente, un modo di percepire il fatto psicoanalitico, di essere psicoanalisti e non di fare gli psicoanalisti.
Un tratto che lo contraddistingueva era l’attenzione non tanto e non solo per la psicoanalisi quanto per il paziente, per il lavoro psicologico insieme al paziente, in coppia. E questo lo ha potuto sperimentare chi ha fatto l’analisi con lui o chi ha avuto il privilegio di lavorare con lui. Riusciva a stabilire un contatto ad personam, se si può dire, dove, soprattutto nell’ultimo periodo del suo operare, la relazione con lui si componeva e si arricchiva di un ascolto dove si poteva trovare non solo il didatta, ma l’uomo in cui l’esperienza dei fatti del mondo, dai pescatori liparoti al kamikaze, veniva offerta senza presupponenza. Al contrario, la delicatezza e la grazia con cui si poneva riuscivano ad aprire la mente verso luoghi del tempo e dello spazio “sognati” o ancora da sognare.
Uno degli ultimi ricordi che abbiamo del Professore e che vogliamo condividere oggi qui con voi risale al marzo del 2006, prima che lui si ammalasse.
Gli avevamo chiesto di parlarci del pensiero di Bion. Lui accettò e, generosamente, si presentò all’incontro al Laboratorio, estrasse dalla sua cartella dei fogli scritti a mano e iniziò a leggere gli appunti presi da lui stesso durante il seminario tenuto da Bion a Roma nel Luglio del ‘77.
Esordì con le parole di Bion : “Noi non ci conosciamo, anche se ci fossimo già incontrati saremmo diversi da quello che eravamo un’ora addietro”.
Qui si soffermò: stava riattualizzando l’assetto gruppale paradossale e perturbante che permetteva di realizzare l’atmosfera conoscitiva bioniana. In realtà lui conosceva tutti noi abbastanza bene! Riuscì a stabilire facilmente un clima evocativo mettendo assieme le parole di Bion con i suoi interventi, le sue associazioni e soprattutto attraverso l’invito garbato ad esprimere liberamente i nostri “pensieri selvaggi”.
Quindi continuò:
“Ci sono intorno a noi pensieri senza pensatore, qualcuno può alloggiare questi pensieri nella propria mente e nella propria persona. Pensieri vagabondi sono anche pensieri selvaggi. Nessuno vuole ospitare nella propria casa tali pensieri, ognuno desidera ospitare pensieri razionali”. Con queste parole ci invitava a sviluppare, in quel momento, in gruppo, pensieri selvaggi, nella nostra mente e nella nostra persona. Pensieri che vagabondano, non alloggiano solo nella mente ma anche nella persona e si esprimono attraverso un sintomo piuttosto che un movimento involontario. Un pensiero selvaggio che può non essere ancora divenuto pensiero, ma tuttavia essere in circolo, è il sintomo. “E’ ciò che non è si è potuto sognare”- direbbe oggi Siracusano con Ogden.
E ancora ci portava a riflettere sugli ostacoli che impediscono alla nostra mente di ospitare pensieri vagabondi citando Bion: “ Non è rispettabile avere una allucinazione o un delirio, a volte la società permette alla gente di fare dei sogni ad occhi aperti che possono diventare una musica o un quadro impressionista, una poesia, che sia rispettabile…” a questo punto aggiunse un’associazione libera, e disse: “ …ad esempio come la processione dei flagellanti a San Fratello”.
Al di là della disquisizione teorica, in questo modo ci aveva introdotto in uno stato mentale sconfinato e sconfinabile dove potevano prendere posto, alloggiare appunto, pensieri difficilmente comunicabili prima ancora a sé stessi , difficilmente ospitabili.
Fece un riferimento a fatti di cronaca quali la madre di Cogne, gli assalti dei kamikaze, i kamikaze donne. Introdusse il pensiero di Matte Blanco e spiegò come può essere possibile una sorta di simmetria che, come in una dissolvenza, consenta scivolamenti da un assetto mentale ad un altro che sembrerebbero opposti ma che si rivelano rifrangenti…. ed ecco che la madre assassina e il kamikaze possono appartenere, nell’inconscio, alla stessa classe. A queste parole, nel gruppo si sviluppò un assetto in cui si potevano, finalmente, pensare cose impensabili, si poteva credere di diventare “folli” o realizzare il sogno di essere folli. Un privilegio non da poco. Come dice Lacan citato da Pontalis:
“Al termine dell’analisi didattica il soggetto deve raggiungere e conoscere il campo ed il livello di esperienza dello smarrimento assoluto”.
Produrre pensieri selvaggi può essere sentito molto disturbante e, ad alcuni livelli, disorganizzante, così come accadde quella sera. Si possono raggiungere livelli di angoscia e di smarrimento in cui un analista deve saper navigare. Sempre attuale risulta la metafora di Palinuro e il suo timone.
Stadi in cui bisogna tollerare l’atemporalità, il non-tempo, il non-spazio, i “non luoghi” (Augè) o meglio avere la capacità di poter essere in un altro tempo e in un altro spazio che non siano mai un solo tempo e un solo spazio bensì tutti gli spazi possibili e tutti i tempi, immaginati e quelli inimmaginabili. A questo proposito illuminanti sono le parole di Pontalis quando dice:
“ Lascia all’idea che giunge inopinatamente, sbarcando, senza avvertire, da qualche paese lontano, forse selvaggio, lascia a questo ospite straniero l’incarico di turbare l’interno della tua casa, la disposizione ben ordinata dei tuoi pensieri e della tua memoria, invece di metterlo alla porta e di respingerlo alla frontiera. Associare, è in effetti dissociare i collegamenti istituiti, ben ordinati, per farne apparire altri che sono spesso dei collegamenti pericolosi.”
Il gruppo reagì realizzando una sorta di scissione tra alcuni di noi che erano divenuti “sobillatori”, avevano cioè sviluppato la capacità di produrre pensieri “sobillatori”, mal tollerati, inaccettabili ed altri che difendevano strenuamente l’ultimo avamposto della logica aristotelica. Si sviluppò un movimento molto vitale, il gruppo sembrò scoppiettare, si disordinò, si disorganizzò, si divise, si crearono come due fazioni che si guardavano con diffidenza e sospetto. La libertà di esperire ed esprimere la posizione “sobillatrice”, innanzitutto a sé stessi, era resa possibile, paradossalmente, dalla coesistenza con la posizione antitetica di una parte del gruppo “moderata” che ne diventava argine e tutore, così come vero era il suo “converso”.
Quello che risultò rassicurante fu la sua calma, il suo composto contenere la produttiva disarmonia che si era creata. In questo modo potevamo assistere a ciò che si può verificare nella mente dell’individuo quando funzionano stati mentali differenti, opposti eppure coesistenti. In ognuno di noi, e quello che accadde in gruppo ne fu la prova, può accadere nel contempo di estendere la propria mente verso “luoghi ectopici”, come direbbe lui, o contenere la produttività del pensiero quando la si sente come una minaccia, come una deriva.
L’aggravarsi delle condizioni fisiche del Professore interruppe il proseguire dei seminari su Bion ma, in verità, evitammo di soffermarci sull’esito di quegli incontri, come se rincontrarsi potesse essere esplosivo visto che lui aveva acceso la miccia.
Da subito, alla spicciolata, in maniera ufficiosa e in piccoli sottogruppi, poi nel gruppo allargato si analizzò quanto si era verificato. Senza saperlo ci aveva condotto nell’esperienza del gruppo, delle libere associazioni, dell’attenzione fluttuante, degli stati di reverie: elementi della psicoanalisi tutt’altro che confinabili alla sola stanza d’analisi.
Solo molto tempo dopo, comprendemmo la ricchezza che quegli ultimi seminari col Professore ci avevano consegnato.
E ripensando alle sue parole, leggendo i suoi scritti si ha l’impressione di avere a che fare con un pensiero complesso, articolato.
Molti i riferimenti agli autori a lui più cari, profonda conoscenza della cultura psicoanalitica e al tempo stesso un interesse vivo per gli accadimenti contemporanei delle Neuroscienze.
Ma questo da solo sembra ancora parziale nel descrivere qualcosa che gli apparteneva e che è stato capace di trasmettere. E ancora una volta ci proveremo attraverso il racconto di un frammento di un seminario da lui tenuto nel 2003.
In quell’occasione il Professore si soffermò su alcuni concetti partendo dal pensiero di Wittgenstein e disse: “Il mondo è tutto ciò che accade… il mondo del paziente è tutto ciò che gli è accaduto, gli accade, gli accadrà. Lui è ciò che sono i suoi fatti. Quando si conoscono i suoi comportamenti si deve pensare ai fatti. Il mondo è la totalità dei fatti. Il verbo fare ha a che fare con la vita, con l’esistenza. Che facimu? Il fatto ha un significato infinito. I fatti nello spazio logico sono il mondo. Gli oggetti formano la sostanza del mondo. Le nostre parti corporee sono già degli oggetti. Posso dirne degli oggetti, ma non dirli. L’analisi va a cercare cose di cui non possiamo dare una definizione precisa. L’analista incontra il suo ignoto con l’ignoto del paziente. La capacità di meravigliarsi. La cosa che ci interessa si sviluppa dentro di noi e ci dà la meraviglia dell’incomprensibilità e della comprensibilità che hanno un punto in cui si toccano. L’imprevedibilità di certi eventi che sempre più spesso ci raggiungono, supera la possibilità di pensarli ed è allora che essi diventano qualcosa di inspiegabilmente distruttivo, ma anche di meraviglioso.”
Crediamo che questo frammento sia suggestivo perché contiene insieme la densità, la complessità, la semplicità di un pensiero che avvicina all’esperienza, alla vita, agli uomini. L’effetto di queste parole era quello di attivare o fare germogliare nuovi pensieri, di suggerire esempi di clinica o anche solo di fornire immagini, di pensare cioè liberamente, creando immediatamente un’atmosfera sospesa, di attesa, di viva emozione in cui tutto ciò che veniva prodotto aveva una sua legittimità, una sua importanza, ed era accolto come un prezioso contributo che arricchiva e dava nuovo vigore al dibattito. Con lui si poteva allora fare l’esperienza creativa di stare insieme con i pensieri che vagavano, esperienza che raramente si può ritrovare in altri contesti, e spesso il mondo dell’arte, attraverso i versi di una poesia o le immagini di un dipinto, riuscivano ad esprimere con maggiore precisione delle stesse parole, situazioni e stati d’animo in un rimando continuo tra elementi teorici e frammenti clinici. L’impressione era quella di fare un’esperienza personale e condivisa in cui alcuni fatti del mondo trovassero una chiave di lettura possibile, praticabile, mai conclusiva e finita ed in cui essere analisti fosse come diceva il Professore: “Essere disposti ad offrire al paziente la nostra presenza vera, umana, reale, disponibile a tutte le proiezioni, a tutte le identificazioni senza entrare in un narcisismo perverso. Avere un’attrezzatura mentale che però non impedisca all’analista, in alcuni momenti, di inventare se stesso”.
Si percepiva allora come tutte le conoscenze del Professore, il suo interesse per le Scienze e la Filosofia, per i Miti, fossero sullo sfondo, lo “costituissero” ma che fossero liberamente al servizio della sua mente vivace e capace di farle realmente vivere, di farcene fare esperienza, attraverso i racconti delle “cose e dei fatti” in cui gli oggetti si riempivano di significato e valore e la natura era presente con tutta la sua forza creativa e distruttrice e gli eventi erano osservati con interesse e curiosità, mai, come ci insegnava, con la presunzione di averne svelato tutti i significati possibili. Una costante durante quegli incontri era l’attenzione sensibile alle nostre richieste e alle impressioni del gruppo da lui puntualmente accolte.
Ciascuno era a suo modo partecipe ed attivo, qualcosa comunque accadeva dentro ognuno di noi e nel gruppo e non era importante che la sensazione fosse uguale per tutti, ma anzi dalle opinioni diverse nascevano ancora nuovi pensieri.
Il pensiero generoso e fecondo del Professore ha contribuito a credere con coraggio, onestà e umiltà alla creatività del nostro pensare e ci stimola e ci sostiene nel lavoro affascinante e delicato di analisti.


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