Alessandra D’Onofrio
 discussione della relazione di Sarantis Thanopulos

 

“La gassa e il pozzo”

1. Gassa d’amante: un nodo responsabile
(La regina dei nodi)

L’intensità del lavoro di Saradis colpisce: ho preferito corrispondergli seguendo ciò che mi evocava.

Infatti non è possibile riprendere tutti i preziosi fili che compongono questa trama da lui composta e tessuta; tutti collocati come in un flusso che lega tra di loro i passaggi creando inoltre snodi potenzialmente infiniti.

Leggendo la relazione di Saradis, in alcuni punti il suo riferimento al legame, alla tensione, alla libertà (come intrinseche caratteristiche del desiderio che è fondante della relazione amorosa), ha stimolato in me una reazione di reverie sfociata in un catena di associazioni. Ve ne rendo partecipi.

Per chiunque si trovi ad andar per mare (vela o motore o pedalò: non ha alcuna differenza), è di fondamentale importanza che sappia come ormeggiarsi (ormeggiare la sua barca/la barca che governa, fuor di metafora: incontrare sé stesso con un altro sé, agganciarlo per creare il luogo di incontro tra il suo desiderio e quello che intravede dentro l’altro, una dimora condivisa): …ovvero legare saldamente il mezzo ad un punto fermo; non esistono freni a mano o funzioni di parking nei mezzi acquatici.

Il nodo per eccellenza nell’ormeggio (non a caso chiamato la regina dei nodi) è la gassa d’amante. Curioso come nome, senz’altro.

Che c’entra l’amante (colui o colei che ama) con un nodo? Non me lo chiedo per la prima volta, conosco questo nodo da un paio di decenni almeno, eppure ora mi PUNGE, mi TOCCA. Vorrei dargli un senso. Mi piace pensare che la risposta potrei rintracciarla (certo autoreferenziale: ma a cosa servono le associazioni se non a significare? usando proprio noi stessi , a partire da noi….) attraverso e facendo “uso” di quanto mi hanno evocato queste pagine. Ho provato a seguire l’impronta che Saradis, il suo pensiero, ascoltato in tutte queste occasioni, ha lasciato dentro di me.

Il legame e la libertà sono costitutivi dell’amore (un’irriducibile contraddizione, un legame libero / una libertà legata: un ossimoro dialettico ma non ossimoro per l’amore).

Ecco perché ho pensato alla gassa d’amante:

È un nodo che saldamente lega e vincola la barca al suo ormeggio ma ha una caratteristica fondamentale che lo differenzia da tutti gli altri nodi: pur legando in un modo tra i più sicuri dispone di una grande facilità di scioglimento. Attraverso questo nodo si lega e si libera la barca dal suo ormeggio con la stessa facilità.

La facilità del suo legare e liberare richiede che la gassa d’amante sia sotto tensione: è un nodo molto forte sotto carico, ha una tendenza ad allentarsi e a perdere il suo effetto quando è scarico. È la tensione che gli permette di funzionare come nodo: quando è scarico di tensione è più difficile scioglierlo, se è carico è di facile scioglimento. Potremmo dire che nel legame amoroso il nodo è carico di tensione se vi è “peso”, la responsabilità intesa come presenza intensa e coinvolgimento nell’incontro tra i due “altri” che si amano.

La gassa dell’amante, una metafora molto adatta a rappresentare il legame d’amore, è un nodo scorsoio che non si stringe mai troppo, molto sicuro è affidabile ma di facile scioglimento.

Torniamo al carico, alla tensione. “D’amante”: come può chi ama non essere carico di desiderio, carico di tensione? Come potrebbe scegliere quanto desiderio mettere? Il desiderio o c’è o non c’è. Il desiderio non si può imbrigliare, chiudere in un cassetto, mettere in un sacco, o decidere razionalmente in che misura adoperarlo. È lui che decide: ci imbriglia e ci porta dove vuole. E’ tirannico (lo percepiamo così se ci armiamo di razionalità). Dice Saradis: “l’amore determina, non è determinato”.

La tensione nel legame amoroso è dunque espressione della forza indomita del desiderio ma non solo. Nell’amore c’è anche, come scrive Saradis, in stretta correlazione con il lutto “…. la costante tensione tra la conservazione nostalgica dentro di se dell’altro come identico a se stesso e l’esigenza di vederlo trasformarsi nella sua esistenza esterna secondo declinazioni nuove che non saturano il desiderio nei suoi confronti. L’amore vive finche questa tensione fra l’identico ed il nuovo ( che rinnova la percezione del passato e rende riconoscibile il futuro) si mantiene viva.”

Senza perdere di vista la tensione amorosa descritta nei termini di Proust: tensione tra l’essere e il non essere desiderati, tra certezza ed incertezza di esserlo.

Faccio un passo indietro: alla facilità di scioglimento del nodo amoroso che consente di essere liberi nel legame. Chi va per mare sa quanto è importante che la barca possa facilmente mollare il suo ormeggio. Per mettersi in salvo: perché il mare può essere imprevedibile, devi adattarti a lui, essere pronto a tutto anche a mollare nel giro di pochissimo. Non lo domini, è una forza irriducibile; è intrinsecamente un rischio. Fuor di metafora: perché l’amore pretende la capacita di liberare, sciogliere (allentare) il legame? L’amore, dice Saradis, ama gli imprevisti, l’amore contempla l’odio (quante volte esso scalda il posto all’amore, in attesa di tempi migliori); l’amore prevede la possibilità di essere libero di amare in altri modi, impegnandosi in altre relazioni; consente agli amanti di ampliare e arricchire la loro intesa creando “nodi metaforici che mentre annodano trasportano anche i sentimenti altrove, irradiandoli verso la vita…”

Legarsi e liberarsi è il destino degli amanti che convivono con la perdita e aggiornano di continuo il loro accordo che, come il desiderio che lo anima, è fondato sulla capacita di continuità e di cambiamento: due posizioni tra cui oscillare che garantiscono che il godimento lasci il desiderio insaturo.

Il desiderio è come il nodo: il vincolo che crea deve restare insaturo, come un ritmo che lascia spazio a battute diverse. Il desiderio è il ritmo dell’amore.

Il nodo è anche il luogo dei confini che sfumano, dove due cime si annodano si con-fondono; ciascuna, tuttavia, ha una propria identità/funzione, che deve essere mantenuta o ritrovata dopo un necessario legarsi (la capacita di annodarsi di cui parla Saradis). Se la distinzione tra i due amanti non è salva (sempre perduta e sempre ritrovata) essi sprofondano in una relazione di dipendenza e di sacrificio (sul sacrificio tornerò dopo).

Ma cosa si prova quando ci si annoda, ci si coinvolge? Si percepisce di correre un rischio, il rischio di confondersi, di perdere i confini, di destabilizzarsi, “….di sentirsi smarriti, di non sapere cosa provare” (dice la Lei del film[1] visto ieri insieme): infatti non si sa, si prova!!!!

Allora abbiamo due possibilità se si desidera un incontro reale con l’altro che nel campo dell’amore è sempre destabilizzante (e questo lo si avverte subito, nel filmè evidente, anche attraverso l’intesa erotica che proprio perché fa esporre mentre avvicina e viceversa può spaventare: “e se poi non va più – si chiedono i due amanti del film- o se invece mi manca?”):

  1. Lasciarsi andare, mettersi nelle mani dell’amato, perdere i confini, lasciarsi coinvolgere, sprofondare nell’incontro. Giunto il momento: “devi buttarti”, correre il rischio, sostare nell’attesa dell’imprevedibilità (il non saper preventivamente come) a che l’instabilità porta con sé.

(Saradis descrive bene quello che accade alla coppia amorosa che liberamente si ama, senza remore, senza limiti, accettando di farsi destabilizzare dall’amore e riconoscendosi nel suo statuto- la tragicità della vita)

oppure:

  1. Lasciare andare, lasciare stare, fondamentalmente per paura del legame e del coinvolgimento (tradire se stessi, tradire l’amore). Qui entra in scena il sacrificio (l’esito più catastrofico): “uno scivolamento possibile”.

Provo a schematizzare come, avendo inteso Saradis, avanza il desiderio. Assodato che si tratta di un gesto, esso può essere visto come movimento a partire da un coinvolgimento, che è anche sconvolgimento, che comporta destabilizzazione. Questa destabilizzazione che è effetto/forza trasformativa del desiderio si compie nella soddisfazione raggiunta nell’incontro e nel contatto profondo con un altro coinvolgimento. E allora il sacrificio (inteso come rinuncia del godimento) non è contemplabile se non è perché si compie la scelta di non rischiare: di non coinvolgersi.

Se la scelta è sacrificio, che fa prevalere il senso di colpa sul senso di responsabilità si perde il contatto con il senso più vivo del desiderio ( che a sua volta dà il senso alla vita: essere o non essere in accordo con il proprio desiderio, e il dilemma tra vita e non vita vera dei nevrotici) e il “desiderio responsabile” lascia il posto al richiamo all’ordine (tradisco l’amore e mi adeguo all’ordine costituito), alla stabilità, alla norma. La finalità? Controllare, e delegittimare, la destabilizzazione che il coinvolgimento comporta, cedere al timore del disordine che l’imprevedibilità dell’esito porta con sé. Il sacrificio sostituisce il senso della responsabilità che perde del tutto il suo senso se si dissocia dall’imprevedibilità, la non pre-definizione dell’esperienza erotica.

2. Il pozzo delle donne e la loro vulnerabilità alla mancanza dell’incontro: Il desiderio cerca un luogo di incontro….che sia il pozzo?

 

Farò riferimento all’articolo di Natalia Ginzburg “Discorso sulle donne”, tratto da il “Il pozzo segreto”.

Sono gli anni del dopoguerra. Ma credo che importi poco: penso ci sia qualcosa di universalmente condivisibile, senza spazio o tempo caratterizzanti. Ciò che conta (senza nulla togliere alle pressioni socio-culturali che in ogni epoca hanno il loro peso, e quella sui ruoli maschili/femminili è forse la più presa di mira) è il sentire femminile che determina e rivela il senso della sua profondità nella relazione amorosa.

Userò il testo di Ginzburg per dialogare, attraverso questo punto di vista, con il tema, a Saradis caro, del coinvolgimento e della vulnerabilità femminile.

Leggerò per prima cosa una parte del testo funzionale a questo scopo:

“L’altro giorno m’è capitato fra le mani un articolo che avevo scritto subito dopo la liberazione e ci sono rimasta un po’ male. Era piuttosto stupido: (…..)quel mio articolo parlava delle donne in genere, e diceva delle cose che si sanno, diceva che le donne non sono poi tanto peggio degli uomini e possono fare anche loro qualcosa di buono se ci si mettono, se la società le aiuta, e così via. Ma era stupido perché non mi curavo di vedere come le donne erano davvero: le donne di cui parlavo allora erano donne inventate, niente affatto simili a me o alle donne che m’è successo di incontrare nella mia vita; così come ne parlavo pareva facilissimo tirarle fuori dalla schiavitù e farne degli esseri liberi. E invece avevo tralasciato di dire una cosa molto importante: che le donne hanno la cattiva abitudine di cascare ogni tanto in un pozzo, di lasciarsi prendere da una tremenda malinconia e affogarci dentro, e annaspare per tornare a galla: questo è il vero guaio delle donne (…) Ho conosciuto moltissime donne, e adesso sono certa di trovare in loro dopo un poco qualcosa che è degno di commiserazione, un guaio tenuto più o meno segreto, più o meno grosso: la tendenza a cascare nel pozzo e trovarci una possibilità di sofferenza sconfinata che gli uomini non conoscono forse perché sono più forti di salute o più in gamba a dimenticare se stessi e a identificarsi con il lavoro che fanno, più sicuri di sé e più padroni del proprio corpo e della propria vita e più liberi”.

Ora chiedo a Saradis, in conclusione della mia discussione:

  1. Quando associ la capacità di coinvolgimento femminile alla vulnerabilità   potrebbe esserci dietro (anzi sotto, come in agguato) il “guaio”, il pozzo segreto?
  1. La sofferenza che incontrano le donne (per via del pozzo) non è facilmente incontrata dagli uomini: perché sono più bravi a dimenticare se stessi? È così?

Faccio esempio: una donna – se ha fatto un figlio, la Ginzburg parla di donne canguro che metaforicamente, emotivamente portano sempre con se il figlio- non può dimenticare se stessa perché non può dimenticare il figlio che ha generato. Può disporre veramente della sua vita se non dimentica se stessa anche se ciò la rende vulnerabile.

  1. Quando sprofonda nel pozzo entra in contatto con le sue origini più ancestrali, con la sua maledetta vulnerabilità che, potremmo, tuttavia, dire, nell’incontro con l’altro assume la funzione di una risorsa perche genera il coinvolgimento. La vulnerabilità dunque la rende più libera di coinvolgersi e di lasciarsi andare (costrutti dell’amore). Ma allora il pozzo può essere la sua forza, la sua capacità, la sua vera funzione di vita e non invece una mancanza o un problema (come intende a mio avviso la Ginzburg?) La libertà non potrebbe derivare proprio dall’acquisizione della consapevolezza del pozzo? Anziché sentire di subirlo, potrebbe “usarlo”, metterlo al proprio servizio. Qui più che virtù la necessità si fa potenzialità espressiva, profondità.
  1. Se è vero che la felicità è condivisione (vedi altro film In to the wild, sempre usato per altri nostri momenti d’incontro tra pensieri ai seminari del Laboratorio) allora l’infelicità è l’impedimento di questa condivisione. Potrebbe essere questo il blackout nell’incontro tra l’uomo e la donna: l’uomo non si abbandona mai totalmente, non cade mai nel pozzo. Se avesse accettato di farlo, saprebbe, riemergendo, quello che le donne sanno, ciò con cui vengono in contatto quando sprofondano: la debolezza associatasi alla malinconia (mancanza?), i sogni che danno forma al desiderio che non disdegna il dolore né la compassione e insomma a tutti i sentimenti che forgiano l’animo umano nei suoi aspetti migliori. Perché l’uomo non condivide la condizione del pozzo?
  1. Se l’uomo segue la donna (nel suo pozzo) l’incontro è profondo e intenso, vero. La loro intesa come non può prescindere da questo. Potrebbe essere una sufficientemente buona funzione di reverie della donna a portarlo, tenendolo per mano, dentro il suo pozzo? Potrebbe diventare il pozzo condiviso, essere il “loro”…pur se nella complessità dell’intesa?
  1. Io credo che le donne sono esseri liberi, almeno quanto lo sono gli uomini (allo stesso tempo liberi e condizionati). Penso che nelle donne ci sono tutte le sofferenze e tutte le gioie della vita e in questo c’entra sempre il pozzo. Se fosse proprio il pozzo (metafora della vagina) alla base della capacità femminile di stare in profondità nella sofferenza cosi come nel godimento?

Allora IL POZZO POTREBBE ESSERE PER LA DONNA LA SUA GRANDE BELLEZZA (ma a patto che lei lo sappia)?

  1. Se la donna è vulnerabile alla mancanza dell’incontro, si può immaginare la presenza del pozzo come alloggiare nella solitudine? ….non sta forse in attesa…..

[1]“Una relazione privata”


Il Laboratorio Psicoanalitico Vicolo Cicala
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