Messina, 21-22 settembre 2013

Rossella Valdrè

La Pianista. Di M. Heneke, Austria (2001)

 

“La bambina è l’idolo della madre che in cambio le chiede ben poca cosa: la sua vita”   (J. Jalinek)

 

 Premessa

La scelta di questo film, tra i moltissimi che toccano questo tema, può apparire curiosa: sebbene il ‘materno’ sia centrale e a mio parere assolutamente prioritario come cifra della narrazione, quando uscì nel 2001 fece molto parlare soprattutto per il versante del comportamento perverso, dell’autodistruttività della protagonista, e via dicendo. Tutto vero; come ogni capolavoro, c’è tutto in La Pianista, potremmo dedicarvi ogni volta un seminario diverso. Tuttavia ritengo, ed è motivo della scelta e della proposta in questo incontro, che il dramma perverso di Erika, la protagonista, esista in conseguenza della relazione con la madre, come unica tragica modalità che questa donna ha trovato alla sopravvivenza. Quando verrà meno, infatti, quando l’equilibrio patologico sarà minacciato, è la devastazione.

Questa la breve doverosa premessa clinica. Non amo mai applicare più di tanto alla lettura del film le categorie psicopatologiche, né indugiare in quella che in passato si chiamava psicoanalisi ‘applicata’; come ho più volte scritto, psicoanalisti o meno ci si lasci guidare alla visione del film con la mente il più possibile sgombra davvero da memoria e desiderio, da intenzioni saturanti o da impellenti ricerche di senso. Il senso è nella narrazione, nella ‘forza visiva’ del cinema, nella sua ‘potenza metaforica’[1] non occorre altro. Poiché tuttavia siamo in un seminario di psicoanalisi, proporrò alcune chiavi di lettura estratte da alcune scene del film – che si configurano come scene-modello – lasciandole aperte alla discussione e soprattutto all’elaborazione, sempre successiva, dentro lo spettatore.[2] Dunque, a latere della sua acutezza psicologica, l’ho scelto soprattutto in quanto splendido film, che unisce almeno tre gemme: la provenienza da un romanzo forte e originale come quello della Jalinek[3] (divenuta famosa al grande pubblico solo nel 2004 col Nobel, ma ancora oscura scrittrice austriaca ai tempi del film), un regista e un’attrice che amo molto, tra loro artisticamente molto legati, tanto che Heneke ha definito la Huppert “ la più grande attrice contemporanea”. Michel Heneke, dal canto suo, si colloca nel panorama di oggi come il regista, a mio avviso, più efficace a narrare il Male, nelle sue sfaccettature più umane e scevre da ogni moralismo[4].

Il film

Una porta che si apre, quella della casa, è la scena d’apertura; una porta che si chiude, quella del Teatro e che per lei si chiuderà per sempre, la scena finale. Giocato con i tempi perfetti di una rappresentazione teatrale, o una sonata musicale, La pianista procede con progressivi sipari che si aprono e ci introducono nel mondo particolare di Erika Khout, severa e stimatissima docente al Conservatorio di Vienna. Gli allievi la adorano e ne temono il giudizio: la sua apparente imperturbabilità e glacialità la rende inconoscibile, resta un mistero per tutti. La scena d’apertura contiene già tutti i contenuti che si andranno poi sviluppando, quasi un ‘manifesto’ al nostro tema di oggi: Erika, che vive con la madre in un clima di strettissima incestuosità e controllo, arriva a casa in ritardo (rispetto all’ordine materno, che è l’unico codice che Erika conosce). La madre le si scaglia contro aprendone furibonda la borsetta, le fruga nella borsa e vi scopre un bell’abito femminile, la copre d’insulti, si contendono l’abito fino a strapparlo. Erika ha una breve reazione dopodichè, come una piccola bambina, s’inginocchia ai piedi della Madre per avere perdono. Intuiamo essere questo il copione che va avanti da una vita: una diade, la chiamerei più che una coppia, inscindibile madre-figlia, la continua intrusione e furto da parte della madre nella mente della figlia, nel suo goffo tentativo di proteggere una qualche forma di femminilità (la borsetta), di soggettività, ma questo è un possesso impossibile, che non può appartenere a entrambe (l’abito strappato). Ecco la prima, e più efficace, scena-modello nell’accezione detta prima, mirabilmente condensata con la grammatica del sogno: vi è già tutto.

Quello che seguirà sembra una deriva inevitabile a questa scena di base. Scopriamo presto che quello che l’ambiente sociale vede, la borghesia viennese da sempre oggetto delle analisi feroci della Jalinek, non è che un aspetto del mondo interno di Erika; ne esiste un altro, l’aspetto scisso ben più inquietante e autentico, che la vede andare nei porno-shop per masturbazioni compulsive, con tutto un ricco corredo di fantasie e progressivi agiti facilmente immaginabili. Non vi è niente di più ripetitivo e prevedibile, come sappiamo, dei rituali perversi.

    Proseguendo nella storia, l’incontro con uno studente diverso dagli altri, Walter, rapito dal talento di Erika e che ne chiede l’accesso alle lezioni, costituisce un’altra scena chiave: parlano di Schumann, che è con Schubert l’autore più amato da Erika, e della sua discesa verso la follia. Bisogna sapersi fermare un attimo prima, dice Erika. Ecco un altro condensato di verità: per non cadere nella psicosi, Erika internamente sa dove non può accedere, che il territorio dell’amore, dello scambio, di una più diretta umanità le è precluso, come se lo scenario scisso e perverso fosse l’unico possibile. Sarà infatti proprio, come detto, quel non essersi saputa fermare un attimo prima a causare il cambiamento catastrofico. Apprendiamo che Erika conosce la follia, sta alle sue radici; il padre è infatti rinchiuso in manicomio. La follia è il suo terreno generativo. Possiamo qui riferirci, come abbiamo visto in “Adele H. Una storia d’amore”[5], a molteplici letture psicoanalitiche con particolare attenzione alla trasmissione inconscia transgenerazionale, che è qui più diretta, cogente e senza scampo rispetto all’universo doloroso, ma più variegato, di Adele H. Intuiamo che Erika e la madre sono presto rimaste sole, il Padre folle esiliato, nella loro alcova incestuosa, mai messa in discussione fino all’ingresso del terzo, dell’Altro, della sessualità desiderante che Walter incarna: dormono nello stesso letto (quello della madre), la figlia non ha una chiave per la sua camera. La Madre, come per la borsetta della prima scena, ha accesso a tutto.

Una piccola digressione dal testo del film al testo del romanzo. Benchè Heneke se ne mantenga aderente, vi è pur sempre una certa libertà nella trasposizione così che del padre, e del rapporto tra i genitori, non ci esplicita niente. Lo fa invece la Jalinek nel romanzo, con queste parole che riporto in quanto mi paiono fotografare perfettamente un’altra scena modello, quella delle origini:

 

“Nella sua metà del letto, la madre russa rumorosamente sotto l’effetto dell’insolita quantità di alcolici ingerita-alcolici riservati in realtà agli ospiti, che però non vengono mai. Molti anni prima, proprio in questo stesso letto, la lussuria la portò alla sacra maternità e, una volta raggiunto lo scopo, venne del tutto eliminata. Un’unica eiaculazione uccise il desiderio e fece posto alla figlia; il padre prese due piccioni con una fava ed eliminò contemporaneamente anche se stesso. Per inerzia interiore o per debolezza d’animo non seppe prevedere le conseguenze di quella eiaculazione”. (corsivi miei).

 

Erika nasce da un atto mortifero, vi torneremo. Il concepimento, brutale come in tutta la narrativa della Jalinek, si ribalta in concepimento di morte per tutti, ma soprattutto per la bambina. Un’unica eiaculazione uccise il desiderio e fece posto alla figlia.

Il desiderio che ama il lutto, come ci ha suggerito Thanopolus, il lutto definitivo del desiderio e il desiderio di morte?

Torniamo al film. L’impatto con Walter, col suo desiderio, come detto rompe l’equilibrio. Erika tenta miseramente di ricostruirlo, riprodurlo con lui proponendogli le fantasie masochistiche di cui si è sempre nutrita, ma Walter è disgustato (il termine ricorre più volte in questo ‘smascheramento’ di Erika), non ci sta, non capisce. E’ l’incapibile, il non empatizzabile per eccellenza lo scenario perverso, come ci può accadere nei rari casi in cui ne abbiamo contatto nella stanza d’analisi.

Una piccola nota sul disgusto, termine che appunto ricorre più volte quando Walter scopre le richieste sessuali di Erika, e che può provare ugualmente lo spettatore (in un’autrice attenta come la Jalinek nessun termine è, seppure preconsciamente, casuale). Ricordiamo che Freud ne parla a proposito della conversione isterica di Dora, ritenendolo appunto un sintomo isterico frutto della rimozione dell’erotismo orale rimasto latente (il disgusto di Dora per il sig K come conversione dell’attrazione verso di lui). Che cosa voglio suggerire con questo? E’ tutto il ‘male’ in Erika, tutto il perverso in lei, o forse lei incarna anche nuclei di desiderio di pulsioni analoghe, presenti in Walter e noi tutti, rimosse e visti difensivamente solo nell’Altro?… C’è in Erika una complessità, a mio avviso, che nemmeno una scissione così evidente riesce ad annullare, che sfugge agli altri personaggi (tranne la madre): forse è da questo che cerca di difendersi, il caos interno cui tenta ingenuamente di dare ordine quando dice a Walter, in un’altra delle nostre scene-modello, che “l’amore è in fondo una cosa semplice”.  Bambina oggetto della madre, è come se fantasticasse la pace di un amore fatto di pura, bestiale pulsionalità, senza la complicazione degli affetti (“io non ho sentimenti”, gli dice). Mi viene in mente un paziente, assiduo frequentatore di sesso su internet, che definiva la pornografia “un mondo senza conflitto”.

Rapida è ora la valanga della precipitazione in quegli inferi, evocati dalla follia di Schumann, che Erika aveva cercato finora di evitare sottraendosi al contatto umano. Gelosia e invidia raggiungono il loro apice: da sempre severa con gli allievi, ne prende di mira una particolarmente fragile, che diventa oggetto di tutte le sue proiezioni rivendicative. In un’altra scena clou, verso il finale, rovina le mani della giovane pianista, castrandola per sempre: era ciò che la madre minaccia nella scena d’apertura di fare a lei se si sottrae al controllo: “bisognerebbe tagliarti le mani”. Non c’è passaggio simbolico, l’agito e la proiezione sono diretti: ciò che non posso avere io non puoi averlo neanche tu, non può averlo nessuno. Possiamo supporre che sia stata proprio la stessa fantasia della madre, a sua volta una donna danneggiata e derubata per sempre da quel primo concepimento mortifero: la figlia non può avere ciò di cui la madre è stata privata. Quello che abbiamo chiamato ‘transgenerazionale’ qui si esprime non solo con messaggi inconsci, ma in una catena di privazioni, di acting diretti dall’uno all’altro, il tutto nel segno di quella concretezza della follia che mi pare costituire, nel film (come nel libro) una cifra stilistica molto efficace. Dalla Madre alla Figlia all’Allieva, il destino dell’odio è finire nell’altro, senza alcuna mediazione di pensiero, o finire nel Corpo, il corpo mutilato di Erika, ferito fino alla scena finale. In questa, come anticipato all’inizio, il sipario si chiude: siamo entrati nel film aprendo la porta della casa delle due donne, della loro alcova incestuosa, e ne usciamo lasciandoci dietro la porta del Teatro, possibilità di esprimere il suo unico talento, la musica, chiusa per sempre per Erika. Sebbene alcuni critici abbiamo aperto a diversi finali possibili, il che non mi pare importante, sembra questa la perfetta, geometrica linearità della vicenda. Essendo tutto concreto, la donna ferita che lascia il teatro è ferita nel corpo attraverso un ultimo, quasi patetico atto autolesivo. Non entro nel merito dell’amplissima letteratura psicoanalitica sul corpo, sulle autolesioni, sulle perversioni che, come abbiamo detto, sarebbero oggetto di un altro seminario; né sulla simbologia che tutto questo richiamerebbe (l’ultimo ferimento come taglio al seno).

Mi soffermerei invece su altre suggestioni psicoanalitiche che riguardano più da vicino il rapporto con la madre, con la trappola del materno in questi casi.

Il furto “estrattivo”, l’Arena, incesto e ‘incestuale’.

Chistopher Bollas arricchisce il panorama dei fallimenti nella reciprocità delle relazioni primarie, con l’interessante concetto di “introiezione (e identificazione) estrattiva”. Non esiste solo l’identificazione proiettiva (di cui abbiamo accennato prima), ma lo “spirito della reciprocità” e, aggiungerei, della soggettività, può essere violato anche in altri modi: uno, che qui vediamo chiarissimo e che ci riporta alla prima scena d’apertura, è l’introiezione estratttiva. Essa avviene “quando una persona per un certo periodo di tempo (da pochi secondi, ad alcuni minuti o per tutta la vita) ruba un elemento della vita psichica a un altro. (…) Se l’estrazione avviene da un genitore sul figlio possono essere necessari anni e anni d’analisi perche il figlio recuperi la parte del sé che gli è stata rubata”.[6]

Una procedura “mediante la quale una persona invade la mente di un’altra persona e si appropria di alcuni elementi della sua vita mentale. La vittima dell’introiezione estrattiva si sentirà deprivata di alcune parti del sé”. L’oggetto ha così provocato una “violazione attiva”, ha “estratto all’altro la sua vita interiore”, il bene più prezioso, il nucleo stesso della soggettività. Ne conseguirà che la vittima si sentirà vuota, svilupperà un senso di disperazione del sé, o un falso sé…molti, e intuibili, gli assetti possibili a seconda della forza con cui ciò è avvenuto, della sua precocità, della presenza di un terzo o meno che venisse in aiuto, della personalità del ricevente (Bollas stesso ammette che resta per lui un mistero perché alcuni siano più sensibili di altri a questo processo). Nel transfert, aggiunge, sono pazienti che a volte sviluppano transfert parassitari, devono stare il più possibile vicino all’analista. Ho incontrato spesso, con gradazioni differenti, questo fenomeno soprattutto nelle pazienti donne rispetto alla madre, testimoniato mutualmente da sogni di furti, appartamenti invasi o senza porte, a forti tinte persecutorie (diventavo anch’io facilmente l’invasore).

L’introiezione estrattiva in Erika è il primo elemento in cui il film ci immette: Erika è subito – e da sempre – derubata. Non di parti del sé, ma dello stesso sé. La madre stessa è stata probabilmente derubata e violata; incapace di fare un lutto, un’elaborazione di questa perdita, la fa pagare alla figlia. Cosa chiede la madre alla bambina? -scrive infatti la Jalinek – Ben poca cosa: la sua vita. Non è una parte de sé che è cancellata, e che la vita (o l’analisi) potranno riportare alla luce: anzi, il solo accenno a questa possibilità rappresentata dall’incontro con Walter, non riporta alla luce le parti perdute ma tutta la pericolosità del trauma, l’urgenza dell’inconscio in una sorta di devastante ritorno del rimosso. E’ la stessa vitalità del soggetto, che è irrimediabilmente rubata.[7] Non solo la sua femminilità (l’abito strappato), la sessualità (la borsetta), ma anche i talenti, le prospettive ideali (non dimentichiamo che Erika avrebbe potuto fare ben di più che l’insegnante al Conservatorio). Dove non è riuscita la madre, deve fallire anche la figlia. Il padre mancante, nella realtà e nella mente della madre dove semmai esiste come violatore e persecutore, completano il quadro. Tra l’altro, è interessante vedere come in parallelo alla psicoanalisi anche diversi filosofi (analiticamente orientati) si occupano di questo ‘eccesso di materno’. Baudrillard, ad esempio, un filosofo che amo molto, pur all’interno di altre tematiche (il corpo, la moda) ha ben puntualizzato il problema nella contemporaneità quando scrive che la fase attuale, avendo abbandonato la legge puritana che si esercitava nel nome del Padre e della sessualità genitale, oggi devia verso “il nome della Madre”, comportando un’inevitabile “regressione incestuosa” (soprattutto per la figlia).Avviene un “processo identico a quello dell’incesto: non si esce più dalla famiglia”.[8]

L’alcova dove le due donne dormono, l’esito di questo dramma va al di là di quello che Racamier chiama “l’incestuale”, situazione relativamente frequente in cui genitori e figli restano uniti pur senza che si realizzi concretamente l’atto incestuoso, come avviene spesso attraverso il denaro, le proprietà, e i mille vincoli sotterranei che tengono i figli sposati per sempre ai genitori.[9] Direi che qui siamo invece nella concretezza, nell’area incestuosa vera e propria, senza la mediazione di un qualche tramite simbolico di copertura (come il denaro negli esempi di Racamier) che ci porterebbe nel terreno nevrotico. E’ questa la forza del film, e del romanzo, l’impatto che ha avuto nello spettatore: non è una storia di “come se”, tutto ciò che i personaggi hanno dentro viene messo in scena. Esempio di come il cinema riesca più di ogni altra forma espressiva a dare corpo alla realtà, a esserne quella “lingua parlata” nella a me tanto cara definizione pasoliniana. Torniamo alla situazione incestuosa (che ho inteso qui indicare non come atto sessuale vero e proprio tra figlia e madre, ma neanche come semplice incestuale), su cui non mi addentro perché ovviamente apre in psicoanalisi un mondo enorme di riferimenti. Mi limito a Racamier per l’utilità di questa differenziazione, e le parole molto evocative con cui descrive quest’area; area che porta al delirio a due e che, se minacciata come nel film, porta a quella catastrofe che definisce “la caduta dell’impero autogenerato”(ib, 2011). “Il soggetto vede aprirsi davanti a sé una sorta di baratro. Spesso basterà un incidente, un avvenimento minore…”. Il vissuto è quello della depressione ma si tratta della depressione psicotica, “quando abbandonati da tempo gli investimenti oggettuali, anche gli investimenti narcisistici svaniscono. E’ il vuoto…”. È Erika che lascia il teatro. L’autore invita il terapeuta a essere cauto, a stare attento quando in pazienti di questo tipo, con questo universo alle spalle, le cose vacillano: bisogna fermarsi un attimo prima, era il presentimento mancato di Erika.

Sul comportamento perverso e masochistico, che pure con la sua forza riempie la maggior parte dello spazio scenico del film e della mente di chi assiste, come detto non mi soffermo. Esso pare configurarsi, tra le scelte possibili al trauma dell’introiezione estrattiva continuativa, la via obbligata di Erika, il suo modo di sopravvivere, uccidendo la possibilità di legami, di calore umano. Il vagabondare di Erika nel sottobosco dei porno-shop e dei posteggi per coppie, fa pensare a quel vagabondare con, sempre Bollas, ha identificato come “l’arena omosessuale”[10] dove persone di questo genere, più spesso omosessuali maschi, vanno a fare cruising e cercare rapidi scambi promiscui (è altro grande elemento di originalità il fatto che la protagonista sia una donna, essendo classicamente la perversione territorio ritenuto maschile). Come “in trance”, questi soggetti rimasti prigionieri della madre è come se vagassero, se fantasticassero di “essere nel corpo interno della madre”.

Anche la città, Vienna – se vogliamo aggiungere un altro dettaglio che nel romanzo è maggiormente sottolineato – vive la stessa scissione di Erika: il bel mondo ipocrita dei salotti dove la borghesia ascolta musica classica da un lato, e la Vienna delle arene del sesso, dove questa sorta di fantasmi vagano, davvero ipnotizzati, nell’ombra. Il regista, come nel suo stile, non giudica, non commenta, ma solo mette in scena, rappresenta il mondo, e quindi anche la città, per quello che è, evitando ogni psicologismo[11]. La scelta di questo romanzo ci fa supporre che certo condivida la feroce critica che la Jalinek rivolge alla società austriaca in tutta la sua opera.

Vienna, la città della musica! Anche in futuro, qui si affermerà solo ciò

che ha già avuto successo. Le saltano i bottoni sul ventre grasso e bianco

della cultura, come ad un cadavere affogato…”.

Se Heneke volutamente la lascia sullo sfondo, una precisa analisi sociale nel libro invece c’è e non è estranea al dramma di Erika: in ambienti chiusi, dove la cultura sembra solo un simulacro, un feticcio cui il borghese si attacca per ignorare l’esistenza degli altri aspetti messi nell’arena, del brutto e dello sporco che ciascuno si porta dentro, è più facile che la famiglia si degradi, che prevalga l’incestualità sull’individuazione e la libertà soggettiva.

Come i sopravissuti al campo di concentramento che hanno fatto fatica a riabituare il loro stomaco al cibo, come poteva Erika riuscire a mangiare, a ricevere tenerezza, amore, dopo tanta fame? La tirannia di Erika, così feroce con gli allievi e con la poverina cui taglia le mani, è la tirannia fasulla di quelli che in più occasioni Borgogno ha definito “spoilt children”.[12] Lo spoilt child, che mi limito ad accennare, è qualcosa di più specifico del bambino genericamente deprivato: colpisce e finisce negli studi dei terapeuti per la sua tirannia, per come tiene tutti in pugno, il classico bambino viziato. Le analisi hanno rivelato storie di enorme sofferenza primaria, un ambiente non solo non rispondente ai bisogni del bambino, non incoraggiante, ma che l’ha sottoposto alla continua erosione delle introiezioni estrattive. “Sono bambini morti devitalizzati – così li descrive Borgogno – anche se l’aspetto che più colpisce e la loro tirannia”.

 

“La sensazione di nullità che spesso mi domina è dovuta a te..”

 

(Kafka, Lettera al padre,1919)


 

[1] Pasolini P.P. (1991): Empirismo eretico, Garzanti, Milano

[2] Uso qui il termine scena-modello – che risale al concetto di Lichtenberg (1989) come modello esperienziale co-costruito da analista e paziente, all’interno della psicologia del Sé – in senso lato e sostanzialmente evocativo, usando il film come una sorta di ‘setting’.

[3] Jelfrede Jalinek: La pianista, Einaudi, 1992. Per approfondire il linguaggio e l’universo narrattivo dell’Autrice, consiglio anche il meno noto “La voglia”, Frassinelli, Milano, 2004

[4] Si veda: Valdrè R. (2013) “Cinema e violenza” in “Il sonno della ragione” (a cura di Scotto di Fasano D. e Francesconi M.), Ipoc ed., Milano (in corso di pubblicazione)

[5] Seminario tenuto presso questo laboratorio il 13 Aprile 2013

[6] Bollas C. (1989): L’ombra dell’oggetto. Psicoanalisi del conosciuto non pensato., Borla, Roma (corsivi miei)

[7] Si veda Panizza S. (2013): I mille volti della vitalità. Rivista di Psicoan, LIX, n.2

[8] Baudrillard J. (1979): Lo scambio simbolico e la morte. Feltrinelli, Milano

[9] Racamier P-C.(1992): Il genio delle origini. Psicoanalisi e psicosi. Cortina, Milano. E anche: “Incesto e incestuale” (2011). Franco Angeli, Milano

[10] Bollas C. (1995): Essere un carattere. Borla, Roma

[11] Ricordo che Heneke, pur laureato in psicologia presso l’Università di Vienna (!), nelle sue rare interviste ha sempre dischiarato di voler assolutamente rifuggire un cinema ‘psicologico’, dove non sia la realtà a spiegarsi da sé con l’immagine.

[12] Benchè l’Autore se ne sia occupato a partire dal ’92 presso il Centro Milanese di Psiconalisi, la conversazione con Dina Vallino da cui ho tratto queste note proviene da: La signorina che faceva Hara-Kiri e altri saggi., Boringhieri, Torino, 2011


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