Eleonora Evangelisti -Università Pontificia Salesiana in Roma

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Palàcio da Pena: un insieme di torri, stili e colori alle pendici meridionali del Portogallo. Un castello, un rifugio, un sogno dove ritrovarsi o perdersi, lontano dai ritmi del mondo. Alte mura sorreggono un’architettura complessa che riunisce, in un connubio visivo, lo stile arabo, gotico, manuelino, rinascimentale e barocco. Stili apparentemente divisi, appartenenti a epoche diverse, ma che trovano in questa struttura, creata per mano di Ludwig von Eschwege, la loro perfetta armonia. Un castello che mostra come, talvolta, l’ordine rinascimentale si può arricchire con le arricciature barocche; come l’altezza superegoica e cupa dello stile gotico e manuelino si intreccia con i colori dominanti dell’architettura araba; come in una sola immensa creazione possano convivere più modi di esistere.
L’elevato muragliene grigio con archi a sesto acuto esprime forza e resistenza, portando, tra quelle macchie, i segni del tempo. Il giallo della torre principale e delle tre laterali emerge nel suo splendore, accostato per contrasto alla parete grigia, vitalizzata, essa, da colonne intrecciate. Il rosa del secondo muro sostiene l’essenza della struttura e forma altre torrette quadrate, in opposizione con quelle tonde dai merli imponenti. Più in fondo si fa strada, tra le altre, una piccola torre con una cupola dallo stile arabo, che rammenta cappelli di importanti sultani. Castelo da Pena: una costruzione storica, energica ed eclettica.
Un castello che rimanda all’immagine complessa dell’individuo: creato sempre diverso, mai perfettamente aderente a un solo stile; mai così perfettamente ordinato dal venir riassunto con una parola, ma sempre in perenne movimento, in un susseguirsi di torri e punte, di evoluzioni e regressioni, in un’oscillazione pendolare tra le pulsioni, alla ricerca del punto di equilibrio, dell’attimo di pura armonia, di pace.
Una pace non sempre semplice da raggiungere. Un equilibrio, talvolta, fittizio; altre volte utopico, racchiuso nell’integrazione delle parti apparentemente più discordanti di Sé.
Imponente e collocato su alture, distante eppure visibile, cupo, ma sapientemente illuminato, nell’immagine del castello vengono segretamente racchiuse le più intime fantasie. Esso compare nelle favole come luogo di protezione, dove nascondersi ed entrare in contatto con le parti più intime del Sé.
Già dai tempi più remoti i monaci, infatti, preferivano rifugiarsi in lontani monasteri, ritenendo che quello fosse il modo di poter realmente dialogare con il mondo, con la propria anima e con Dio. Tuttora, la via dell’ascolto del silenzio diviene la privilegiata da percorrere per raggiungere le proprie segrete, dove adeguatamente vengono celati misteri, talvolta sconosciuti all’individuo stesso.
L’inconscio ha una voce che, a tratti, sa essere anche assordante; ma spesso, grazie al bagaglio di difese di cui dispone l’Io, esso è più simile al sibilo prodotto dall’aria che penetra delicatamente in un foro: solo attraverso il silenzio è possibile udirlo.
E così: quante voci che escono da quelle finestre, quante grida senza voce.
Libere, incatenate, addormentate e potenziali fuggiasche, le principesse dei fratelli Grimm e di Perràult hanno atteso, in silenzio, tra quelle torri l’arrivo di fantomatici salvatori, che potessero aiutarle a crescere, a evolversi, a separarsi dal proprio nido.
Le finestre si rendono spettatrici di avventure, di attese e vicende interne: loro vedono e sentono i tormenti dell’animo umano. Tonde, arricciate, quadrate, aperte e chiuse rappresentano,
inoltre, un’apertura verso l’esterno, uno sguardo verso il mondo, con, però, una certa distanza da esso.
In una dimensione che lo colloca tra il me e il non-me, prende così vita il Palàcio da Pena, associabile a quello spazio intermedio transizionale, che può ritrovarsi in un setting psicoanalitico, collocato tra sé e l’oggetto, che rappresenta in parte l’unione con la madre e in parte la separazione da essa. Uno spazio particolare, che alterna, come in una danza a due, momenti di forti cariche angosciose ad altre di profondo contatto, in cui esistere, sognare e liberare la fantasia, senza creare in essa una nuova realtà.
Il castello è, però, da sempre stato rappresentato come un luogo dalla doppia valenza, in un’intrecciata ambivalenza tra contenimento e prigionia, tra essere e apparire. Stessi contrasti rintracciabili nell’animo umano, come se ogni individuo rappresentasse un castello a sé stante, tra visibile e invisibile. Freud (1899), in merito al sogno, suddivideva in esso un contenuto manifesto e un contenuto latente: il Palàcio da Pena si manifesta nella sua imponenza, celando gelosamente i suoi misteri.
Nonostante i colori ardenti e le forme suadenti, con la sua lontananza dal centro abitato, immerso nelle colline di Sintra, il Palàcio rimane oscuro a prima vista, adempiendo alla prima originaria funzione del castello: quella di fortezza dalla quale proteggersi dall’arrivo di eventuali attacchi nemici, da battaglie, talvolta, reali, altre immaginarie.
Quante paure e angosce di annidano fuori dal forte, e quante si nascondono dentro: fantasmi, mostri e leggende ripercorrono la storia e si mimetizzano, nell’immagine, con le ombre date dalle torri.
Palàcio da Pena, con le sue torri gialle e rosa, ma le muraglie grigie e ombrose, identifica perfettamente la dimora di principi e principesse, orchi e orchesse, fate e matrigne: esso si fa partecipe della perenne lotta tra bene e male, rintracciabile nell’animo pulsionale di ogni individuo.
Una guerra, quella con se stessi, dalla quale è impossibile sottrarsi, se si desidera suonare le note del vero Sé, lontano dalle immagini costruite a misura degli altri significativi.
“L’anima ha il suo peso” insegna brillantemente Miyazaki in “77 castello errante di Howl”(2004): così come quelle mura grigie sorreggono una costruzione perfetta, nelle sue assonanze e dissonanze, l’uomo trasporta il proprio cuore, nel tentativo di lasciarlo battere di battiti propri.
Cosa ci sia alla fine della battaglia è difficile dirlo. Magari un luogo localizzato, nell’immagine, laggiù, oltre quella torre araba a sinistra: un immenso mare, dove navigare e raggiungere orizzonti ancora sconfinati.


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