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La colta emigrazione

“Don Minico” si chiama. E’ un posto di ristoro che sorge sui Colli Peloritani della mia città. Puoi gustare squisiti panini imbottiti col formaggio, sottaceti e peperocino.
Seduta in una delle panche sotto un albero, respiro l’aria pura, pulita. 
Mi guardo attorno. Alcuni tavoli sono occupati.
Osservo le persone, mi raggiunge qualche parola giusto per  comprenderne il dialogo. 
Un uomo poco più che cinquantenne e un ragazzo poco più che diciotenne, siedono vicini, un padre e un figlio. Condividono, c’è uno scambio di battute scherzose. Li vedo, in verità, solo di spalle, ma la loro postura o quello che mi comunicano quelle spalle, chessò, forse la leggera incrinatura di entrambi come se portassero un lieve peso, i movimenti della testa, leggermente ciondolante verso il basso come chi non si dà pace, traducono quel po’ di parole che sento. Il ragazzo è in partenza, il padre gli dà dei suggerimenti, ripassano l’orario del volo, inseguono i mesi che arrivano già a natale, quando si rivedranno. 
Nessuno dei due sembra felice.
Più in là una coppia di fidanzatini. Sbocconcellano i deliziosi panini e parlano fittamente. Lui domani torna al nord a studiare ingegneria navale, lei resta a messina.. Si rivedranno anche loro a natale. 
Neanche loro sembrano felici.

E’ da qualche tempo che nella mia città se vai al cinema il sabato sera  trovi adolescenti e anziani. Lo stesso nelle pizzerie, nei ristoranti, non parliamo poi del teatro!
E’ scomparsa una generazione .
Ogni famiglia “che si rispetti” ha un figlio alla Cattolica o alla Bocconi, alla Normale di Pisa o alla Marangoni.
Li vedi partire più o meno convinti, a frotte, dopo il liceo per le città del nord. Frequentano le università d’”eccellenza”.
Non esagero se più del 50% degli studenti delle classi superiori sceglie di continuare gli studi universitari al nord e le città del sud si spopolano.
Una sterile, tranne qualche caso, attitudine al conformismo, è quella che chiamo “la colta emigrazione”, come il rolex per i diciottanni e la chatenet sotto casa.
Non è, per me, questo, un buon segnale, per tanti aspetti.
La colta emigrazione  è, a mio avviso, un fenomeno sociale che non và confuso con l’”andare a studiare” in un’altra città perché si vuole raggiungere, miratamente, una buona preparazione o fare una sana esperienza d’autonomia. Questo movimento c’è sempre stato e propone la spinta evolutiva della persona, il piacere di esplorare, misurarsi, conoscere, ma,  ciò che definisco come “colta emigrazione”, è un aspetto del conformismo che coglie, come un oppio, i nostri giovani e che è sostenuto dai bisogni della società.
La colta emigrazione è come un contagio, si và perché si deve andare non perché si sa dove si vuole andare, si và sostenuti dall’illusione di un progetto più che dalla realizzazione del tuo progetto. Si và perché, nel tempo, ci si è abituati a non apprezzare le qualità della tua terra e a idealizzare un’alterità con cui non ci si confronta, rimandando, così, il momento del contatto con la realtà. Si và perché altrove è meglio,….finchè non si pensa neanche più perché si và.
Un tempo si emigrava con la valigia di cartone, dicono, legata con lo spago, si cercava un lavoro per scampare alla povertà.
Oggi coi trolley dell’eastpack e l’iPhone, coi portafogli pieni, si cerca ancora qualcosa, forse si cerca di scampare ad una povertà di senso.
Bisognerebbe per un momento chiedersi, ma dove vanno questi ragazzi? Cosa stanno cercando veramente, cosa credono di trovare?
Non è il caso di problematicizzare, aprire una riflessione visti i risvolti con cui poi si evolve la colta emigrazione?
Molti tornano delusi e incompleti, (anche prima del tempo), altri, dopo aver concluso il loro corso di studi, magari troveranno un’occupazione, sì, ma con uno stipendio con cui non riusciranno a mantenersi in una grande città se non continuando a fare rifornimento dalla famiglia.
E’ questa l’autonomia e la realizzazione che cercavano?
Si dice che le possibilità di assunzioni  siano maggiori al nord e che, “i più bravi” vengono  monitorati sin dall’università per essere poi assorbiti nelle aziende, nei grandi studi, ecc. Ci credo!!
Ma chi ci guadagna davvero?
E’ lecito ritenere una chance imperdibile quella che, invece, a me risuona come una  “esportazione”  di massa, visto che, (caspita, lo si vede ogni giorno!) non ci sono più lotterie per nessuno?
Non sarà che la “chance imperdibile” sia per il sistema piuttosto che per l’individuo?
Che cosa stiamo facendo credere ai nostri ragazzi? Quali illusioni sosteniamo anche solo per il fatto di non abituarli a pensare ed essere critici? A guardare la realtà ?
A me sembra una vecchia storia, quella che al nord “è più facile”, valida fino a qualche tempo fa, ormai una posizione piuttosto desueta, in cui prevale la negazione di uno stato sociale in difficoltà, al collasso.
Eppoi, un’attenzione alla realtà del sud. Le città registrano la depressione della mancanza dei giovani e incassano perdipiù la depressione delle loro famiglie in un domino pericoloso che non fa rialzare la testa e induce in un ulteriore lassismo, coltiva un sentimento di precarietà soprattutto sentimentale per difendersi dalla quale si scivola, poco alla volta, nell’indifferenza,  in un subentrante  impoverimento dei significati.
Le risorse locali non vengono sfruttate anzi sono disprezzate.
Il rischio è che il sud diventi un luogo di villeggiatura, dove andare al mare d’estate e mangiare pescespada e spaghetti col pomodoro e basilico.
Non sarebbe più saggio, tenendo verosimilmente presente la situazione sociale, piuttosto investire nelle realtà locali sia a livello economico che di potenziamento delle risorse?
Basti pensare che un figlio che studia al nord comporta per le famiglie del sud uno spostamento di capitali (pagamento di tasse universitarie, affitti o acquisti di immobili, viaggi e quant’altro) capitali che non vengono investiti nella propria città, per non parlare dell’impoverimento culturale e della detrazione emotiva che tutto questo ambaradan comporta.

Il mitico Don Minico, ecco che diventa allora un esempio imprenditoriale. Da semplice fornaio ha investito nella sua terra, inventandosi letteralmente un’attività unica,  inimitabile e intramontabile, resa fattibile dal forte impegno, professionalità, inventiva e coraggio.
La “pagnotta pazzesca” la dice lunga!

Donatella Lisciotto