Valeria Mavilia – Università degli Studi di Messina

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Fiori su muri antichi

L’idea di questo concorso fotografico a tema “I luoghi che parlano” mi ha fatto subito pensare, accompagnata da un po’ di ansia, alla necessità di dover osservare con più attenzione gli aspetti della realtà per cogliervi quel qual cosa che, immortalato, fosse adatto ad una tale prova. Alla fine, dopo un certo tempo, mi sono resa conto che tra le varie foto scattate da me ce n’era una che, nonostante le mie valutazioni tecniche mettessero in discussione (nello scatto c’era stato un leggero movimento), risaltava nella mia mente su tutte; guardandola c’era qualcosa che mi “pungeva”. Ciò sicuramente aveva a che fare con qualcosa di mio, qualche significato che attribuivo, seppur in modo inconsapevole, alla foto, proiettando un mio vissuto interno. La bellezza, infatti, delle varie forme d’espressione artistica (pitture, sculture, cinema, fotografia) risiede proprio in questo, nell’unificare sotto la stessa opera d’arte esperienze, emozioni, memorie e vissuti diversi, così che i motivi per cui essa piace sono del tutto soggettivi e ognuno conduce un’esperienza “privata” di fronte al medesimo aspetto di essa. Attraverso il meccanismo proiettivo ognuno può vederci qualcosa di sé.
Innanzitutto mi è sembrata particolare la prospettiva della foto che va dal basso verso l’alto, partendo da una zona adombrata per cogliere il fascio di luce che arriva e illumina la parte superiore delle mura contornata da fiori color glicine. Sembra come rappresentare lo spazio mentale dove si fondono vecchio e nuovo, passato e presente, chiusura ed apertura, segreto e comunicazione. Mi fa pensare ai livelli della nostra mente: quello più evoluto dove esiste la distinzione tra le cose e quello meno evoluto, più primitivo dove albergano gli aspetti pulsionali e dove prevale l’indifferenziato. Il ruvido del muro antico su cui poggiano le tenere foglie e i fiori rampicanti rappresenta, però, anche la possibilità di un innesto tra questi due livelli presenti nella psiche di ognuno. Il grezzo, il non-elaborato è, infatti, sede e linfa del nostro mondo cosciente. L’Io, che si affaccia al mondo, nasce pur sempre dall’Es e da esso trae l’energia libidica necessaria.
Potremmo dire che l’obiettivo del percorso analitico, come lo stesso Freud ha descritto, possa essere proprio l’integrazione tra questi due aspetti della psiche, liberando quell’energia che era imbrigliata ai conflitti e rendendola disponibile per i processi creativi del soggetto nel mondo. “La psicoanalisiè uno strumento inteso a rendere possibile la conquista progressiva dell’Es da parte dell’Io” (S. Freud, 1922). Ciò significa che l’Io, la nostra parte più razionale comprendente le funzioni cognitive, deve orientarci nel rapporto con la realtà in quanto un processo cognitivo totalmente dominato dall’organizzazione pulsionale condurrebbe a distorsioni della realtà come quelle osservabili nelle psicosi. Tuttavia, la creatività comporta la capacità di allentare il processo secondario a favore anche di modalità più primitive basate sul processo primario. Ciò è ben espresso in quella capacità di regressione assolutamente fisiologica che è la “regressione al servizio dell’Io” (Kris, 1936, 1952, 1956), concetto che esprime la possibilità di scivolare con flessibilità verso modalità di pensiero “meno ordinate” per dare libero spazio alla creatività e vedere la realtà in modi sempre nuovi, seguendo la “logica” del sogno anche da svegli.
Il percorso psicoanalitico si configura, dunque, come un viaggio esplorativo volto alla scoperta di parti di sé mai conosciute, che rende possibile trarre dalla consapevolezza del passato la forza per il presente e la progettualità per il futuro. La foto nella sua prospettiva mi fa pensare proprio a questo movimento verso la conoscenza-luce dal passato-muro antico, al tempo e alla memoria. La presa di consapevolezza del vecchio e oscuro che fa luce e apre al mondo, facendo germogliare nuove parti di sé, presenti in potenza.
L’idea dello spazio tra mura mi suggerisce la possibilità di contenere i ricordi in un luogo mentale sicuro dove possano rimanere, una volta elaborati, senza annullarli o deformarli, ma custodendoli e allo stesso tempo “dimenticandosene” attraverso un certo grado di oblio che può realizzarsi, però, solo dopo la conoscenza delle proprie origini.
La foto mi suggerisce inoltre l’idea della tendenza alla vita intrinseca in ogni essere umano, l’istinto di vita e la pulsione di vita che spinge alla sopravvivenza e all’autoconservazione. I fiori rampicanti che attorniano le vecchie mura fanno pensare alla possibilità che qualcosa possa nascere anche nelle condizioni meno favorevoli. Le piante rampicanti possono crescere sia appoggiandosi ad un sostegno, come reti metalliche o spalliere in legno, sia in modo del tutto autonomo, attaccandosi da sole al muro e non necessitando di alcun sostegno. Ciò mi fa pensare all’importanza di quelle possibilità intrinseche ad ogni essere umano, alla capacità di resistere alle avversità che prende il nome di resilienza. Questo è un concetto mutuato dalla fisica ed indica la capacità di un materiale di assorbire energia in caso di urto, ovvero di sopportare gli urti senza spezzarsi. Da alcuni esperimenti condotti, infatti, ne è derivato che i materiali fragili assorbono poca energia, mentre i materiali duttili al contrario assorbono molta energia. Applicando ciò al genere umano, si può quindi dire che è resiliente il soggetto con qualità come la flessibilità, l’elasticità, la capacità di contenere le emozioni.
La resilienza si esemplifica, dunque, nella capacità di affrontare i vissuti e le esperienze traumatiche attraverso una rielaborazione creativa che non nega l’evento o il trauma, ma lo limita, lo circoscrive, e consente di investire creativamente nelle proprie risorse. Seguendo il pensiero di Wìnnicott, si potrebbe pensare alla resilienza come alla capacità del soggetto di mantenere e utilizzare le “cose buone” ricevute. La capacità di mantenere un residuo buono è tipico di quei bambini maltrattati che, nonostante la deprivazione, riescono a trovare e conservare dei residui “sufficientemente buoni”, che gli consentono di crescere con risorse inaspettate. All’origine, infatti, c’è sempre la tendenza dell’individuo a restare vivo e a stabilire relazioni con gli oggetti con cui entra in contatto nel suo espandersi. D’altronde se l’ambiente è sufficientemente buono il bambino o adolescente in sviluppo avrà la possibilità di crescere “secondo il proprio potenziale innato “.Qualche muro non fa una prigione, né le sbarre di ferro fanno una gabbia (D.W. Winnicott, 1986).
Si può pensare a ciò anche nei suoi risvolti politico-sociali rispetto alle deviazioni che ci vengono proposte e che devono spingerci sempre ad esercitare una viva critica per non abbattere la speranza e la possibilità di auto-inventarsi, qualità insite in ogni uomo.
Vorrei concludere riportando una poesia che mi sembra riassuma questi ultimi temi e che si presta a rappresentarli al meglio:

I fiori nei muri

Avete mai fatto caso a quei fiori
che crescono nelle crepe dei muri,
a quei fiori che sembrano esistere – e resistere
soltanto per scommessa…
a quei fiori che s’attaccano alla vita
con ogni loro fibra,
succhiando con caparbia avidità
ogni più miserevole goccia d’acqua
e di umidità?
Li avete mai osservati da vicino
quei fiori
che aggrappati ai sassi
resistono alle più violente intemperie,
al gelo delle notti
e ai raggi brucianti di un sole spietato
con straordinaria, ammirevole forza?
Ebbene…
certe persone sono come quei fiori.”
(E. Bartoli)

 


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